LORENZO ED ANTONIA, SPIRITI ERRABONDI
La poesia è forse sempre stata il canto di un’anima in cerca di se stessa. Una ricerca che nasce da un silenzio e trova forma negli spazi e nelle figure che possano donarle voce. Un’avventura, un percorso, che tende a una risposta che resta in bilico, che si trasfigura in un’immagine e poi si perde di nuovo. Il viaggio di Gabanizza percorre le tappe della ricerca di un’unione che si compie solo per brevi istanti, ma che si intuisce necessaria. La poesia ridesta sempre all’ascolto. Dunque, la ricerca è inevitabile.
I componimenti di questa raccolta testimoniano, come un diario di viaggio hegeliano, le tappe di uno spirito che si cerca e anela alla completezza.
Nel farlo, Gabanizza impiega le immagini della natura quotidiana, povera, familiare, piuttosto che la maestosità che la lirica è solita cantare: le rocce, una foglia, il ramo, un rododendro, panorami osservati da vicino. “Ai piedi dei tuoi monti/E con passo d’ imbarazzo/Ho avvicinato il tuo riposo/Di rocce e rododendri”.
Restano presenti, sullo sfondo, le montagne e il mare. E una presenza costante, alla quale questa raccolta è dedicata: la poetessa Antonia Pozzi.
Il rimando alla poesia pozziana è quanto mai evidente: quei dettagli della natura montana e l’impiego che le rime ne fanno per delineare il senso esistenziale dell’anima vagante coincidono con la poetica della Pozzi: “Oggi siamo qui/o sono qui solo/Sotto una quercia senza frutti/Non ho più nulla da dare/E il gelo della morte già si alza/Su di me come nebbia dai campi”.
In Gabanizza si riconosce la medesima, sacrale, ricerca dell’Altrove. Una dedizione liturgica, dunque, che consente all’anima non solo di esprimersi, ma soprattutto di tendere a quell’incessante e inevitabile ricerca della trascendenza: “Un Oltre fatto di serena fermezza/E quell’Altrove che ci accomuna/E ci impasta, ci liquefa e congiunge.”
Pozzi e Gabanizza sono spiriti errabondi, che hanno bisogno di credere all’Altrove. La solitudine del poeta che si cerca e soffre per la mancanza dell’Altro è quanto mai avvertita in questi versi. Affinché il poeta pervenga alla visione, la solitudine è condizione necessaria. E ne sorge il silenzio, che però non è mai “assenza”, ma completezza.
La solitudine del poeta diviene sofferenza che non si placa. Perfino l’apparente felicità di una “spiaggia” lascia posto all’amarezza di una fuga senza epilogo.
In Gabanizza si riconosce anche una molteplicità di tempi che si mescolano, si rincorrono, attraverso meteore di estasi, eterni passati, ricordi d’infanzia, incertezze del presente. Sono i tempi dell’esistenza poetica che non trova appiglio, incapace di approdare a un riposo temporale. “Nella comprensione/Delle cose grandi/Siamo noi a farci Tempo” […] spaziare nell’eterno/E non dell’eterno che ci schianta”.
E poi c’è una donna. Che più volte torna e rimanda al dono dell’amore. Tuttavia, anche questo amore si confonde con il suo opposto, e quando non è odio esso si tramuta in sofferta incomprensione. Ritroviamo la mescolanza di estasi e infelicità, di completezza e perdita, di tenerezza e lutto.
Tutto è mutevole, si espande, si ritira, si disperde, rinasce. Un essere mancante, che talvolta è toccato dalla grazia di un completamento, ma che non può mai, interamente, esistere. Il rimando trascendente è onnipresente, e così la ricerca dell’impossibile unità agognata.
La poesia diviene ricerca spirituale, unica espressione di un impossibile divenire. Poiché la poesia può dire l’impossibile: immaginarlo e cantarlo. È qui, allora, che il poeta riesce a soffermarsi, a riposare, componendo le parole che dicano l’essenza stessa di ciò che ci circonda.
La poesia sa raccontare la sofferenza di un’anima, ma non è mai crudele. Piuttosto, essa può sostenere il peso di un’esistenza che non trova soluzione nel suo costante tendere all’Altrove.
La poesia non dà le risposte, ma crea le domande. Senza di essa, mancherebbe il senso filosofico di questo cercare: “Mi chiedo allora di cosa sono fatto/Se di sostanza putrescente o stella liquida”.
Gabanizza esprime questa verità, la grandezza del pensiero poetico. Che non si stanca di nominare, di osservare nella quotidianità e nelle piccole cose il senso del nostro vivere. La poesia è senza tempo, scorre sotto le cose, le fa proprie e le conserva. La poesia che diventa unica compagna di una solitudine esistenziale, che ci salva dalla nullità del non poter essere interamente.
È la poesia a rivelarci chi siamo. A donarci a noi stessi.
Poeta è chi non ha timore di tale rivelazione.
Si deve tornare a leggere la poesia, non solamente a farla. Donare ai versi la voce umana. Ricordando che se la poesia esiste non è per descrivere la bellezza, ma per domandare il senso delle cose, del nostro vivere, per richiamare la nostra anima alla sua origine, per lacerare il velo, per riaprire la ferita originaria. Per esprimere tutte le possibili sensazioni della tragedia: dalla tristezza al pianto, forse anche la gioia. Se c’è dolore, c’è anche liberazione.
La poesia fa male esattamente a causa della sua assoluta sincerità.
Poiché non si mente quando si scrivono versi.
Recensione di Adele Ricciotti
Laureata in Filosofia all’Università di Bologna, traduttrice per Mondadori e curatrice delle opere di Marìa Zambrano