Oggi, se vi va, proviamo a ragionare sull’accordo raggiunto ieri in Scozia in materia di dazi, definito da Trump “un grande successo” mentre la presidente della Commissione europea si è limitata a dire che “poteva andare peggio”.
Allora, come sapete l’accordo Usa-Ue prevede dazi al 15% per le merci importate negli Stati Uniti dall’Europa (includendo farmaci, semiconduttori e auto) mentre l’importazione di merci americane proseguirà secondo le regole precedenti.
L’Europa, inoltre, si è impegnata a comperare sistemi di difesa ed energia per la modica cifra di 750 miliardi (600 miliardi dovrebbero essere destinati all’acquisto di armi).
L’acquisto di energia dovrebbe essere suddiviso nei prossimi tre anni, quindi coprire l’intero mandato attuale di Trump.
Le tariffe su acciaio e alluminio rimangono al 50% (tenendo conto che per l’Europa non si tratta di un settore altamente strategico).
Ancora Donald Trump ha commentato l’accordo così: “Penso che sarà fantastico per entrambe le parti“.
Per una non c’è da dubitarne.
Accordo chiuso e partita risolta, dunque?
La maggior parte dei commenti spiega che non è affatto così: non ci sono garanzie che questo sia l’atto finale della guerra commerciale avviata il 2 aprile scorso con il Liberation Day (l’annuncio della Casa Bianca di dazi commerciali a tout le monde).
Per dire, il Giappone sta discutendo una serie di interpretazioni dell’accordo raggiunto da pochi giorni mentre il Canada alimenta uno scontro interpretativo a settimane alterne.
Anche l’accordo stretto con l’Unione Europea si presenta orfano di dettagli e quindi ritenere la partita archiviata potrebbe riservare ulteriori sgradevoli sorprese.
Ma vediamo, rapidamente, l’impatto potenziale sulla nostra economia.
Dopo l’Irlanda, siamo il paese più esposto alle conseguenze dei dazi da parte americana, avendo l’11% della nostra occupazione (auto, moda, farmaceutica) legata a quelle tipologie di esportazione verso oltre oceano.
Secondo Confindustria, la miscela di tariffe al 15% e dell’indebolimento del dollaro (la caduta di valore della valuta americana ha raggiunto il 13% dall’insediamento di Trump) è destinata a provocare una perdita dell’export italiano pari a circa 22,6 miliardi (solamente 10 di questi sarebbero recuperabili su altri mercati); nello specifico parliamo di macchinari per 4,3 miliardi, farmaceutica per 3,4, alimentari per 1,8, autoveicoli per 1,3 miliardi.
Tradotto: decine di migliaia di posti di lavoro a rischio in una condizione della nostra economia che soffre da oltre due anni di un calo della produzione industriale e dove l’incremento del tasso di occupazione deriva da un incremento contestuale di lavoro precario e sottopagato.
Che le opposizioni definiscono, dunque, quello stretto ieri un accordo capestro sembra una pura fotografia oggettiva.
Sulla partita delle armi, fiumi di retorica cresciuti attorno alla costruzione di un esercito europeo e di un sistema di difesa autonomo crollano a fronte dell’impegno ad acquisire per 600 miliardi sistemi d’arma di produzione americana con l’inevitabile conseguenza di tagliare investimenti e spese in politiche sociali e di welfare.
Dinanzi a tutto questo il governo italiano, a partire dalla stessa presidente del consiglio, rivendica un risultato tutto sommato positivo (sic), e poco conta che lo stesso ministro Giorgetti avesse definito “insostenibili” dei dazi superiori al 10%.
Che dire?
È il sovranismo, bellezza!
Se tanto tanto si conosce un po’ della storia del Novecento (storia economica in questo caso) è difficile negare come il nazionalismo porti esattamente a questo sbocco (come abbiamo ricordato altre volte e in altri post “dove non passano le merci, prima o poi passano le armi”).
Che fare?
Intanto capire meglio quali saranno le conseguenze di quanto sta avvenendo nell’immediato (l’interpretazione dell’accordo a cui facevo cenno).
Ma non basta: bisogna anche rendere più veloce la firma di nuovi accordi commerciali con aree diverse del mondo, cominciando dal Mercosur; favorire la ripresa del mercato interno affrontando finalmente con radicalità la nostra questione salariale; sollevare (le proposte ci sono) l’urgenza di politiche di redistribuzione rilanciando una strategia di investimenti a livello nazionale.
Tutte cose sulle quali, come spiega Antonio Misiani, il governo risulta fermo all’anno zero.
GIANNI CUPERLO
