Qualche considerazione “scomoda” sul nuovo supermercato “Iperal” di Pasturo.
Fino a qualche tempo fa non ne ero al corrente, ma quando poi ho saputo che nella piana di Pasturo, tra i monti della Valsassina (provincia di Lecco), sorgerà un supermercato da 1500 mq di una nota catena della grande distribuzione, un acuto senso di rammarico e pure un certo disgusto mi hanno subito attanagliato l’animo.
La piana di Pasturo, in vista di alcune delle vette maggiormente iconiche delle montagne lecchesi – il Grignone in primis – è uno dei luoghi più belli della Valsassina: sia provenendo dal Colle di Balisio e da Lecco, sia da oltre la stretta di Baiedo e dalla bassa valle, la piana appare come una sorta di inaspettato “miracolo” geografico in mezzo a versanti montuosi più o meni ripidi, la più ampia area planiziale della Valsassina. Una piana la cui rinomata fertilità ha probabilmente conferito il nome al comune nel cui territorio si trova – Pasturo è un toponimo che ha probabile origine latina da pastorium in rapporto con pastura, “il pascere, il brucare”, da cui il lombardo pastura nonché l’italiano pastura, “il pascolare, il luogo dove trovano da nutrirsi le bestie” – ma che parimenti è stata già parzialmente urbanizzata e cementificata proprio in forza della favorevole geomorfologia. Ciò non toglie che la piana resti un angolo del paesaggio locale di grande bellezza e importanza: ci si rende bene conto di ciò soprattutto se la si attraversa a piedi o in bicicletta, a ritmo lento, lungo la ciclovia della Valsassina, che qui inizia e attraversa la piana in direzione della Rocca di Baiedo.
Detto ciò, e tornando alla questione del nuovo supermercato, sono certo – o quanto meno non posso non augurarmelo – che il punto vendita verrà realizzato secondo tutti i crismi della sostenibilità ambientale, che non consumerà suolo in quanto edificato su un’area industriale dismessa e in una zona peraltro giù urbanizzata, come detto, che amplierà l’offerta commerciale locale, che darà lavoro a gente del posto e migliorerà la viabilità circostanze… ok, tutte cose buone e giuste. Ma a che prezzo? O, per meglio dire: a prezzo di quali e quante conseguenze che si inesorabilmente manifesteranno da qui al prossimo futuro? E con quale impatto culturale sulle comunità locali?
Io posso anche apparire un ingenuo o un illuso se conservo ancora la speranza, invero ormai svanita, che certi modelli consumistici tipicamente metropolitani se ne debbano restare lontani dai territori rurali e dalle montagne, lì dove le comunità dovrebbero ancora essere animate da modus vivendi collettivi e da una socialità concreta, pur tra mille variabili e dovendo restare inevitabilmente al passo con i tempi e i costumi. In parole povere: in montagna non si vive come in città e questo è un grande pregio; diviene un difetto nel caso in cui l’abitare tra i monti non venga sostenuto da adeguate politiche socioeconomiche, cosa purtroppo assai diffusa in Italia.
Nelle città grandi e piccole i negozi di quartiere e le piccola attività commerciali sono ormai pressoché scomparsi, sostituiti dai grandi supermercati diffusi in gran numero ovunque, ma in questi ambiti vi è la possibilità che la loro valenza di aggregazione sociale possa essere sostituita da altri luoghi; nei piccoli paesi, invece, se chiude un negozio spesso viene meno la gran parte della socialità del posto, anche perché – ribadisco – purtroppo nel passato tanti comuni non hanno saputo salvaguardare gli altri centri di ritrovo attivi per la propria comunità, giovane e meno giovane.
D’altro canto è inutile illudersi: il fatto che l’apertura del nuovo supermercato potrà provocare la chiusura di tanti piccoli negozi, come molti in valle paventano, non è affatto un mero timore ma una tangibile certezza: sì, tanti negozi in zona chiuderanno inesorabilmente, è accaduto ovunque in circostanze simili e la Valsassina non si trova su Marte o su Saturno. Chiuderanno anche qui, garantito. Dunque, a fronte dei posti di lavoro che il supermercato offrirà, quanti ne farà perdere nei piccoli paesi del circondario? E con quali impatti sulla quotidianità delle loro comunità, soprattutto della componente più attempata?
Tuttavia non c’è solo una questione socioeconomica alla base di tutto ciò, ve ne sono anche di natura culturale, non meno importanti e impattanti. Ne cito solo alcune.
La prima: il modus vivendi al quale risulta funzionale un supermercato che lavora e guadagna su logiche consumistiche, anche laddove offra prodotti di qualità, è ammissibile e integrabile in una dimensione vitale e residenziale comunitaria come quella della montagna? In altre parole: il modello culturale che il supermercato porta con sé è conciliabile con la cultura del vivere in montagna, la quale ha numerose criticità ma anche innumerevoli pregi tra cui il fatto di non basarsi su logiche consumistiche? Oppure la vita in montagna si deve conformare sempre di più a quella di città, livellando ogni differenza e dunque inevitabilmente deprimendo le sue specificità?
La seconda: checché se ne dica, e nonostante il nuovo supermercato di Pasturo sia edificato su una zona ex industriale recuperata senza consumare altro suolo naturale, tale circostanza in loco sancisce un precedente. Potenzialmente pericoloso, dal mio punto di vista. Se hanno dato la licenza a quella società della grande distribuzione, perché ad altre non dovrebbero concederla? Chi può garantire – nei fatti, non a parole – che ciò non accadrà, da qui al futuro? La piana peraltro è vasta, di spazio ce n’è ancora e sappiamo bene come in Italia la destinazione d’uso dei terreni possa variare rapidamente e facilmente, quando ve ne sia la convenienza per qualcuno di influente. D’altro canto pure se eventuali altri supermercati dovessero nascere in altri luoghi della valle, i pericoli e le potenziali conseguenze fin qui delineate sarebbero comunque moltiplicate.
La terza: e il paesaggio? Anche se viene proclamato e assicurato che il nuovo grande edificio verrà integrato e armonizzato con il territorio circostante, si tratta comunque di un nuovo manufatto antropico che viene inserito – comunque a forza, inevitabilmente – in un paesaggio di gran pregio e bellezza come quello della piana, che sarà altrettanto inevitabilmente meno bella, meno naturale, meno montana e un po’ più simile a una qualsiasi periferia di città. Con conseguenze in tal caso culturali e ancor più identitarie, ovvero impattanti sull’identità, sull’anima del luogo e su quella di chi lo abita, dato che il paesaggio, lo sancisce la relativa Convenzione Europea, è fatto dall’insieme di elementi naturali e elementi antropici per come viene percepito e culturalmente interpretato da chi vi interagisce, innanzi tutto dai suoi abitanti. In pratica, quel nuovo parallelepipedo di cemento e vetro sarà edificato anche sul carattere e sull’anima dei valsassinesi, con effetti inevitabili e solo all’inizio intangibili.
Per carità, magari queste mie sono solo fisime ovvero banalità senza senso e invece hanno ragione i proponenti del nuovo supermercato, gli amministratori pubblici che l’hanno consentito, i valsassinesi che se ne dicono contenti e si sentiranno più “comodi” nel fare la spesa, meno “cittadini di serie B” rispetto a quelli che vivono in città. Ma giusto di recente ho letto un articolo di Serena Milano, direttrice di Slow Food Italia, che in relazione alla chiusura dell’ultima bottega di un piccolo comune dell’Appennino Ligure, così ha scritto: «Lo spostamento a valle è andato di pari passo con la corsa verso il grande: si costruiscono scuole più grandi, ospedali più grandi, impianti sportivi più grandi. È un processo di sviluppo che genera disuguaglianze sociali.» Un processo che, come si può ben vedere, è presente anche nel commercio al minuto: chiudono i piccoli negozi dei paesi e si aprono supermercati sempre più grandi: una disuguaglianza sociale, economica, culturale, antropologica che ora rischia di manifestarsi anche in Valsassina. Conviene veramente? Forse sì. O forse… chissà.
Luca Rota
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